Intervista a Don Sergio
Partiamo da una domanda autobiografica: chi è Sergio Messina oggi?
Non credo di essere cambiato molto, rispetto all'infanzia o alla giovinezza. Il desiderio di fare qualcosa di costruttivo e di efficace in vista di un mondo migliore migliore è sempre stata la mia identità. Mi vedo come uno che vorrebbe togliere tutte le sovrastrutture, gli impedimenti, i fardelli inutili di cui la vita è inspiegabilmente così piena. Non sono un rivoluzionario, ma un semplificatore. Anche dal punto di vista teologico: vorrei che tutti si rendessero conto che gli esseri umani sono solo piccole luci alimentate dall'infinito e tenero Generatore che tutti ama con tenerezza eterna e incondizionata. Non amo complicare la vita, ma semplificarla; non voglio privilegiare i gesti formali ma quelli reali; non cerco di elaborare teorie, ma di conoscere il passato per non rivivere la realistica predizione di Primo Levi: «Chi non conosce la storia, sarà obbligato a riviverla». Trovo difficoltà quando nel mondo ed anche nella Chiesa domina qualcos'altro: l'esteriorità, la ritualità, il politicamente corretto, il tradizionalismo dannoso. Trovo difficoltà a rimanere sereno quando ti viene continuamente inviato questo messaggio: non puoi essere sincero, non puoi dire quello che pensi, devi temere la reazione di tutti, perfino di Dio. Sono convinto che siamo su questa terra per una bellissima esperienza che ci viene concesso di fare: diventare sempre più umani, nel modo più efficiente possibile, che per me vuol dire gioioso, solidale, altruistico ma soprattutto non formale, realistico, senza fronzoli inutili. Spero di lasciare questo mondo avendo creato attorno a me qualche piccola oasi dove si sono cercate strade nuove e si sono realizzati piccoli progetti di umanità.
Ora un cenno al tuo essere sacerdote
Per me essere prete vuol dire essere dentro all’umanità più profondamente degli altri. Vuol dire avere più spazio e più tempo per accogliere, per non legarsi a situazioni belle ma che possono bloccare il tuo esistere. Non mi sono mai sentito il mediatore del sacro, casomai dell’umano. La mia formazione, in seminario, è avvenuta nel decennio del Concilio Vaticano II. Era un periodo di cambiamento, di apertura, di speranze negli uomini della Chiesa. La Bibbia veniva letta in senso più critico, sembrava si potessero realizzare i sogni della Chiesa dei poveri del Card. Lercaro o di mons. Helder Camara. L’assemblea liturgica puntava a realizzare la presenza di Gesù in mezzo a noi: nel pane, nella Parola, nella richiesta di perdono e nella condivisione della comunità. Ecco perché non tendo a privilegiarne un aspetto solo: tutte le volte devo parlare di Gesù, ma anche lavare i piedi ai miei fratelli più bisognosi… Diventando prete sono entrato subito in crisi soprattutto perché mi si chiedeva di tacere anziché dire la verità, di adeguarmi anziché proporre qualcosa di nuovo. Non per il gusto di essere originale, ma per rispondere ai bisogni veri dell’umanità. Anche oggi, se sapessi che dove vivo c’è bisogno di lavare i gabinetti, io lo farei. Invece mi chiedevano cose che per me non hanno senso: investire sui bambini quando agli adulti si fa passare tutto; fare riti di vita e di morte, quando la vita reale è quella della finanza e del lavoro, come se su questo non avessimo molto da dire. Io non mi sento un teologo, perché non darei la vita per una teologia piuttosto che per un’altra. Invece darei la vita per poter essere più umano verso qualcuno, o verso tutti se di fatto fosse possibile.
Ora passiamo a quello che è stato per te l'ambito principale di presenza umana e pastorale: la sanità, o meglio il dolore
Per fortuna la vita ha voluto che lavorassi nel mondo della malattia. Ciò mi ha permesso di realizzare qualcosa di diverso, perché sono dovuto stare vicino alle persone concrete, asciugare le loro lacrime, animare il loro tempo libero, celebrare in modo adatto ai bambini malati e agli adulti persi nel dolore e poi anche cosa fare per i parenti che venivano da lontano, a casa mia, poveri e indebitati. Seguire la morte di 1500 bambini mi ha "obbligato" ad evitare frasi teoriche, frasi fatte, prive di anima ed invece trovare risposte "logiche" e umane al perché si vive, al perché si soffre, al perché si muore. Nel 1980, uscendo dalla congregazione dei Giuseppini del Murialdo, diedi inizio ad una comunità che in quindici anni ospitò 27 minori. Parallelamente iniziò il mio lavoro in ospedale, al Regina Margherita di Torino. Nella nostra piccola comunità trovarono accoglienza oltre cento famiglie di bambini malati di tumore, tra cui una che rimase a casa nostra per un anno intero. Mi resi conto che i cristiani chiedevano solo miracoli per continuare a credere e a fidarsi di Dio e allora decisi di offrire non risposte teoriche o teologicamente perfette, ma opportunità di diminuire il dolore: ospitarli a casa, condividere il mangiare e l'ascoltare, riflettere insieme sul senso della nostra vita che è inevitabilmente segnata dal limite, dalla fragilità, dai condizionamenti, dalla terminalità. Questa mole di esperienza mi ha fatto capire che non è la teologia che salva, ma l'antropologia illuminata dalla fede; non sono le risposte teologicamente perfette che risolvono i problemi, ma la vicinanza fisica, la condivisione del quotidiano, l'accoglienza incondizionata del dolore che distrugge. Dai bambini venni trasferito nel 1997 all'ospedale delle malattie infettive. Lì per sette anni seguii malati di AIDS (ne vidi morire tanti) e ora lavoro con i malati mentali. Continuo ad avere la grazia di poter stare dentro l'umanità, di camminare insieme a chi fa fatica, a chi è ai margini, a chi non vede spiragli di luce, a chi nel momento della tragedia ha buttato alle ortiche gli insegnamenti ricevuti da piccolo.
A questo punto, facci capire verso quali direzioni stai ora guardando, ora che hai cessato il servizio diretto in clinica
Mi sono "affezionato" a Gesù perché ha fatto discorsi antropologicamente illuminanti, mi ha detto che Dio è bontà e tenerezza; ha usato parole non ambigue: «gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date»; (siamo) «figli di Dio e fratelli». Mi ha parlato della vita in modo così semplice e lineare, che mi dà la certezza che questa esperienza valga la pena farla, indipendentemente dal "credere" in Dio, dal pretendere delle cose da Lui. Credo che il ruolo di Dio è quello di illuminare sempre e comunque tutti. Lui continua ad essere Luce anche se qualcuno per motivi che non conosciamo non vuole o non può o non riesce ad aprire gli occhi. Ed è Gesù il testimone di questa luce. Lui mi ha insegnato a cercare sempre e solo l'umanità, ad impegnarmi a diventare più umano. Gesù chiama Simone «pietra» (Mt 16,13-20), ma anche «scandalo», lo chiama Satana (Mt 16,21-27). Tutti noi siamo insieme pietra e scandalo, siamo insieme Pietro e Satana, perchè questa è la condizione umana. Non voglio "costruire" sulla condizione umana; voglio conoscerla, accoglierla e spassionatamente amarla. Perché parlo spesso di morte? Perché non posso vivere senza conoscerla, accoglierla, spassionatamente amarla. Perché costruirci sopra una teologia negativa quando essa c'è, riguarda tutti ed è scritta nel nostro DNA? Quando essa è dono, opportunità, grazia che ci permette di vedere finalmente Lui? Credo fermamente a quanto affermava Teillhard de Chardin, «Non siamo esseri umani che vivono un'esperienza spirituale, siamo esseri spirituali che vivono un'esperienza umana».
Ma le religioni cosa dicono all'uomo ? e specie ai giovani?
Mi ha sempre impressionato una frase di Jonathan Swift: «Abbiamo abbastanza religione per odiare il prossimo, ma non per amarlo». Ho l'impressione che le religioni non amano la vita, perchè non la conoscono; preferiscono teologizzarla senza guardarla, interpretarla senza amarla, dogmatizzarla senza accettarla. Se Dio è Creatore, questa creazione svela qualcosa di Dio nel momento in cui noi la accogliamo, la accettiamo, possibilmente l'amiamo. Se osserviamo la storia capiamo che succede sempre ciò che …può succedere. Perché allora tutte le volte sembra che capiti la prima volta? Perchè tutte le volte che ci succede qualcosa che è già avvenuto miliardi di volte rimaniamo sbalorditi, scandalizzati, disorientati? Perchè tanto orrore per la morte se so che questa esperienza tocca tutti gli umani? Perché non accettare, diventando vecchi, che è assai probabile che diventeremo incontinenti, impotenti, disorientati? Non posso far finta che tutto ciò non esista. E che capiti solo agli altri. Faccio un secondo esempio. Se il Maestro ha detto che «Quanto avete fatto tutto, dite: "siamo servi inutili"» (Mt, 7,20), perché i cristiani pretendono di essere "ricompensati" per il bene che fanno? Perché esigono privilegi ed esenzioni? Gesù assicura ai discepoli che andrà a Gerusalemme dove verrà sì flagellato e ucciso, ma dove anche risorgerà. Ho trovato così poche persone che accettano la croce e credono nei fatti alla resurrezione… Anche Pietro non capisce.
A questo punto Gesù reagisce …
Sì, lui reagisce: Pietro non l'ha ascoltato, è diventato Satana, ostacolo perchè il discorso globale pur terminando in una visione di fede, cioè nella Resurrezione, di fatto non viene recepito come tale dai discepoli. Cosa me ne faccio, allora, di chi crede che il suo corpo è risorto, ma poi non usa tutti gli insegnamenti di Gesù in famiglia, sul lavoro, nella politica e nell'economia, nella Chiesa? E' ininfluente per me avere trovato il sepolcro vuoto se poi si vive senza la nostalgia del mondo sognato da Lui! «Non scomunicate e non sarete scomunicati». è una frase che tra miliardi di anni sarà ancora valida, validissima e non potrà mai andare perduta. Sarà sempre vera. Perché allora non viene messa in pratica da coloro che credono che il suo corpo è risorto? «Chi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo". Nella Chiesa solo nella liturgia ha visibilità questa frase, ma appena vai sul concreto e chiedi di destinare ai poveri parte dei vari "tesori" sparsi abbondantemente nella penisola, passi per eretico e scismatico. Non siamo discepoli di un Maestro che è risorto, dopo aver dato la vita? Non è Lui annunciatore di un messaggio che ci assicura che Dio «abbatte i potenti dai troni?». Non è Lui che ci ha ordinato di privilegiare l'ultimo posto?
La vita al primo posto, dunque!
Sì, io prima di tutto devo vivere amando la vita. Dico spesso che la vita ha tre caratteristiche: è gratuita. bella, benevolente, cioè piena di benevolenza, piena di "nutrimento" sufficiente per fare nella tua vita le tre esperienze fondamentali: la sobrietà, la sincerità, la solidarietà. Noi siamo i partner di questa realtà che, essendo sempre segnata dalla fragilità, comporterà prima o poi che noi umani dovremo fare l'esperienza del limite, della sofferenza, del dolore, del lutto, del tradimento, della paura,ecc. Se però siamo su questa terra non solo per contemplarla, ma sopratutto per migliorarla, il nostro impegno dovrebbe focalizzarsi sull'umanizzazione della fragilità, del lutto, del dolore, del tradimento, ecc. Inventare strade sempre nuove per rendere il limite e il male occasione di crescita, di condivisione, di conversione, di resurrezione.
Dio, quindi, alla fine non ha bisogno della religione …
La religione è per l'uomo, non l'uomo per la religione. Una tradizione ebraica racconta di alcuni giovani che chiedono a un anziano rabbino quando sia cominciato l'esilio di Israele. «L'esilio di Israele» risponde il rabbino «cominciò il giorno in cui Israele non ha più sofferto del fatto di essere in esilio». Il vero esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c'è più nel cuore la struggente nostalgia della patria. Ho nostalgia della patria voluta da Gesù, ho nostalgia del regno di Dio e di una religione che viva il detto di Gesù così dimenticato: «Vuoi che tutto sia puro in te? Condividi ciò che c'è nel tuo piatto». (Luca 11). D'altra parte quando i primi cristiani di origine greca si domandarono cosa fare per fare memoria di Gesù, presero coscienza che lui incontrava le persone nei pranzi e lì condivideva pane che allora era solo non benedetto, ma che ora è consacrato dalla sua parola, dalla sua vita e dalla sua morte e dalla sua resurrezione. A quei pasti pochi era gli osservanti, mentre molti erano gli scomunicati, gli esclusi, i non garantiti. E oggi? E' il pranzo, la Grazia! Ma se appena esco da qual pranzo comincio a giudicare chi non c'era o a pettegolare su chi c'era, vuole dire che quella cena del Signore non è riuscita a sprigionare tutta la ricchezza umana che era intrinseca all'azione compiuta. Perché ci accontentiamo di protesi quando potremmo correre liberamente con le gambe per l'immenso prato della vita?
Dunque, siamo tutti chiamati a una missione sacerdotale …
Sì, io non parlerei più di vocazione, ma solo di missione. Con la prima si fanno distinzioni e separazioni tra le persone, si inventano privilegi ed emolumenti diversi, con la missione tutti abbiamo la stessa meta e lo stesso scopo nella vita. L'Eucarestia è missio. Una missione valida condizione che ci impegniamo a diventare più umani. «Uomini ricordate la vostra umanità e dimenticate tutto il resto». affermava Einstein nel 1955. Si diventa preti per diventare più umani, ci si sposa per diventare più umani, cioè più accoglienti nelle reciproci diversità, per rimanere fedeli aldilà delle difficoltà e degli imprevisti, per imparare a dialogare, cioè a mettere in mezzo alle nostre parole (dia – logos) la ricerca della compassione, della salvaguardia dei diritti reciproci, dell'unità, della giustizia. E' questa la missione sacra che tutti dobbiamo svolgere. Non conservare icone, non imbalsamare corpi di defunti, non difendere manufatti, ma far vivere gli uomini nella dignità, nel minimo necessario, iberi da violenze e manipolazioni. Per questo mi ero fatto prete. Questo sognavo di fare come discepolo di Gesù
Quindi è la vita, il sacrificio!
E' la vita il primo sacramento. Posso credere in Dio, ma se disprezzo la sua opera più evidente, più reale, più quotidiana che è la vita è come se lo bestemmiassi continuamente. Per me Gesù è colui che si è sacrificato perché vedessimo nella vita la paternità di Dio, capissimo che il quotidiano è luogo dove noi lo incontriamo, che il reale è da conoscere, accettare, trasfigurare. Sì, verum et factum convertuntur. «Il tempo galoppa, la vita sfugge tra le mani. Ma può sfuggire come sabbia oppure come una semente», diceva Thomas Merton. Gesù è stato la semente, la più eccezionale semente che ha fatto rifiorire questo mondo. Pensiamo alla Lex aurea che quasi tutti presentano come Lex Argentea: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Lui invece ha detto: «Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te». Ed ha anche aggiunto in Mt 7,21 qualcosa di inimmaginabile ed incredibile: «Qui sta tutta la Torah e i Neviim», cioè tutta la religione. Perché non scandalizza nessuno questa frase, perché viene accettata impunemente? Eppure è rivoluzionaria perché riconduce la religione aI suo alveo più logico e naturale: quello della uguaglianza dei diritti umani, quello della comunione tra le persone, quello della sentirsi legato (re-ligare) a tutti come fratelli, come partners, come coinquilini dello stessa casa comune. Certo occorrerebbe prima prendere atto che quando sei bambino hai corso fortemente il rischio di essere invaso dai barbari. I genitori, i nonni, l'entourage, i catechisti hanno approfittano della tua fragilità per passarti i propri pregiudizi, i propri preconcetti, i rancori, i rimpianti, i rimorsi, le ferite, le violenze subite, le umiliazioni patite, la propria visione moralista o formale del mondo. E adesso fai tanta fatica a liberarti di questo fardello. Se poi i catechisti continuano a narrare il secondo racconto della creazione che c'è nella Genesi e non il primo, non possiamo meravigliarci che i nostri piccoli crescano maschilisti, ossessionati dal peccato originale e dalla rabbia verso questa "valle di lacrime".
Come impatta tutto questo nella vita cristiana?
Invece di fare tanta catechesi, non sarebbe ora che facessimo un po' di scuola di umanità, di perdono, di solidarietà? La nostra religione è spesso trasmessa fondandola sulle apparizioni e non su tutte le parole di Gesù, sui castighi di cui abbondano i racconti biblici e non sulla bontà intrinseca delle opere di Dio. Del resto nella nostra tradizione occidentale la menzogna e la paura non sono stati considerati vizi capitali. Sarà per questo che quando ci parla qualche occidentale non sappiamo mai se ci sta davvero dicendo la verità? Dio è un pezzo di pane che si fa mangiare, non un orco che divora i suoi figli per capriccio o per vendetta. Ogni gesto che fa nei nostri confronti è impacchettato dall'amore e con l'amore. Questo deve essere l'impatto che la catechesi ha nella vita cristiana. Non è irenismo, è realismo. Se ogni fiocco di neve è stupendo nella sua diversità è perché Dio è prodigo, è illimitato nella sua tenerezza, incondizionato nel suo amore. Il rito è lo strumento, non la realtà. Le cerimonie sono la cornice, non il quadro. Le tradizioni spesso sono solo folclore e nulla più. L'essenziale è non bestemmiare la vita, salvarla dalle invasioni barbariche di chi ci obbliga a guardare indietro e ci vieta di aprire bene gli occhi sull'oggi, di chi in nome del passato uccide il presente. Le persone hanno bisogno di sapere che l'Eucarestia è l'opportunità massima per imparare a diventare umani, per riprendere in mano la propria vita, per imparare a giocarsi, sulla scia di Gesù, per qualcosa di grande.
Quindi è un incontro
Sì, un incontro umano dove il sacramento è la Vita, l'agente sacramentario per eccellenza, perché tutto è grazia, tutto è gratuito, tutto è dono.? Origene cita un agraphon di Gesù che dice: «Siate cambiavalute abili». Ecco l'opportunità che vita mi offre: diventare responsabile, cioè abile nella risposta in modo da far fruttificare al massimo i doni ricevuti. Ci devo mettere tutto il mio opere operantis perché Lui ci ha messo il suo opere operato. Il sole è gratis: il partner del sole sono io, ma devo aprire gli occhi per essere inondato dalla luce. Piedi per terra e occhi bene aperti davanti a noi: questo credo che sia stato l'insegnamento del Messia. Il Padre ci vuole partner nella creazione e nella trasformazione di questo mondo. Perchè allora dobbiamo disprezzare il nostro partneraggio? Se Lui ci ha dato il potere di creare qualcosa o qualcuno (pensiamo a un figlio) che altrimenti non sarebbe mai esistito, ciò mostra l'enorme considerazione che Dio ha per gli umani. L'educazione avuta in famiglia e, a volte, anche nella religione, spesso fa di noi un pezzo di marmo insensibile al bene e alla solidarietà, ma Dio non perde la speranza di trasformare il nostro cuore di pietra in un cuore di carne. La vita, se tieni aperti gli occhi, può riuscire a modellare in meglio la tua esistenza, aprendola alle esigenze della giustizia e della fratellanza. Perché Dio è umano. I testi lo dicono: «Riconosceranno che siete miei discepoli se siete umani». E Gesù parlando col giovane ricco gli cita solo i comandamenti che riguardano i rapporti con gli umani, non quelli con Dio. Se sono attento davvero alla vita, presto o tardi sarò messo nell'occasione di incontrare l'Autore della vita. Ma se sono connesso con Dio, tantissime volte correrò il rischio di essere connesso con le teorie su Dio, non con la sua realtà, con la sua essenza. Dovremmo fare come Gesù che non ha mai inventato teorie e che quando ha detto che Dio è Padre ha chiamato a testimonianza i gigli del campo e i passeri del cielo. Siamo qui per fare un vita bella, buona e felice, come l'ha fatta Gesù. Una vita, certo, segnata dalla fragilità, ma più ancora dalla creatività. Una vita che è incontro con il limite, ma che è anche anelito incessante all'infinito. Essa ci è donata gratuitamente perché noi impariamo a donare gratuitamente. E' imperfetta perché noi la miglioriamo e la completiamo. E' espressione della nostra creaturalità, ma anche della nostra somiglianza con Dio. E' preda dei serpenti tentatori, ma è anche l'opportunità somma che abbiamo di cominciare a realizzare la profezia del terzo capitolo della Genesi. Quella che riguarda noi, la stirpe di Eva, chiamati da Dio a schiacciare una volta per tutte la testa dello stupido serpente ingannatore.
Intervista a cura di Pierfortunato Raimondo, Silvia de Todaro, Luciano Mazzoni Benoni